26/02/14

Lavorare nell'editoria. Tra idealismo e autolesionismo

Amo il mio lavoro. Non c'è altro da aggiungere. Di fronte a tutte le difficoltà, la crisi del settore, la mortificazione del lavoratore, la poca considerazione che viene concessa ai precari dell'editoria, e fra loro chi se la passa peggio sono i collaboratori esterni a ritenuta d'acconto o a partita iva, la domanda sorge spontanea: perché non fuggire e darsi a più fruttuosi lidi?

La risposta arriva altrettanto spontanea: perché io amo quello che faccio. Non sempre, certo, come qualsiasi lavoro del resto, e non sempre nelle giuste condizioni, però terminare la giornata con un senso di soddisfazione, di pace interiore, e svegliarmi la mattina senza un senso di oppressione alla gola, è il più bel regalo che potessi ricevere.

Perché ho provato anche l'angoscia di vivere una vita che, per la mia indole probabilmente, non sentivo mia. Giorno dopo giorno. Mese dopo mese. Avevo uno stipendio regolare, addirittura ogni mese, questo sì, ma poteva compensare la sensazione di star buttando via me stessa per qualcosa che non mi apparteneva? (Tralasciamo il piccolo particolare che poi, fusa l'azienda in cui lavoravo con un'altra, la prima cosa che hanno fatto i nuovi capi è stato buttar fuori tutti quelli a contratto a progetto.)

Oggi, lavorando su un libro che mi piace, ho capito che ne vale la pena. Che nulla potrebbe darmi questo senso di libertà, perché a me piace fare la freelance e mi piace avere a che fare con romanzi, saggi, insomma con i libri. E allora perché dovrei rinunciare a quello che amo? O meglio... perché ci deve essere qualcuno che mi vorrebbe "costringere" a mollare? Ovviamente non intendo un costringere alla lettera: non c'è ancora nessuno che mi punta una pistola alla tempia. Ma potrebbe esserci tra qualche anno, metaforicamente parlando.


Io non voglio essere assunta: voglio maggior dignità di trattamento, più puntualità (e frequenza) nei pagamenti, un compenso decente. Chiedo diritti finora NEGATI a chi non ha voce e potere contrattuale, a chi deve pagare da sé i contributi e comunque sopravvivere, a chi vuole inventarsi un lavoro perché nessuno gliene offre uno, a chi è allergico agli uffici e sogna un futuro a misura di se stesso, a chi non vuole pensare alla propria vecchiaia in un ospizio per poveri, a chi non è disposto a barattare i propri diritti e la propria passione, a chi ama quello che fa - e ha speso anni e sudore per riuscirvi - e non vuole più sentirsi dire "scappa!"

Scappa da questo Paese. Scappa da questo settore. Perché nessuno invece mi dice "lotta", "resisti", "sii ottimista"? L'ottimismo io non lo prendo certo dalla politica che ci ritroviamo, che dovrebbe risolvere i problemi e invece non fa che crearne di nuovi (vedi ad esempio aumento dell'iva al 33% per chi ha partita iva!!!), posso prenderla solo da me stessa. Prendere ciò che il mio lavoro mi offre di bello, e denunciare pure questa bellezza, che non deve essere dimenticata, sprecata, gettata via per colpa delle sue (pur enormi) mancanze; prendere questa bellezza e questa passione e partire da qui per trovare un senso - come diceva Vasco - anche a ciò che un senso non ce l'ha.

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