18/02/14

I libri e la semplificazione dei sogni

C'è una massima che negli ultimi anni è rimbalzata come un mantra in praticamente tutti gli ambiti esistenti, da quello ambientalista a quello letterario: meno è meglio. Non so se sia nato prima in ecologia o in letteratura, sarebbe un po' come chiedersi se sia nato prima l'uovo o la gallina, fatto sta che da tempo si sente dire che per raggiungere i lettori "meno è meglio", e che per vivere con ritmi più umani l'unica soluzione sia la "decrescita", oltretutto felice.

Si tratta sicuramente di ambiti diversissimi, e quindi con logiche altrettanto diverse, dato che la decrescita felice vuol spingere le persone non solo a consumare meno e ad avere meno bisogni "superflui", ma anche a sentirsi realizzati con ciò che si ha, con ciò che si può fare con le proprie mani, riscoprendo perciò un diverso modo di vivere il tempo e un contatto più diretto e genuino con la natura. In questo il concetto di decrescita felice mi trova pienamente d'accordo, per quanto alle volte un tantino complicato da realizzare in una città come Milano.

"Meno è meglio" in fatto di scrittura creativa, invece, mi lascia un po' perplessa. In parole povere (ecco, appunto) significa adottare uno stile semplice, senza troppi aggettivi (che appesantiscono quello che dovrebbe essere un testo che scorre leggero come acqua) e soprattutto senza parole troppo difficili, desuete (desu-che?), ricercate; brevi frasi lapidarie, meglio se prive di subordinate, proprio te ne possiamo concedere una ma guai se ne abusi; personaggi tratteggiati quel tanto che serve alla funzionalità della storia, se poi riesci pure a concepire i capitoli già come scene di un futuro film con tanto di colpi di scena, allora sei perfetto, proprio l'autore che cercavamo. Noi chi? Ma è ovvio, noi colossi dell'editoria. Non solo italiana, bisogna dire, anzi risulta piuttosto una prassi importata dall'estero, che noi abbiamo immancabilmente imitato, come tutto ciò che proviene dall'estero, peccato che con altri risultati.

Come nel cinema, quando vogliamo imitare le commedie americane e però ciò che esce fuori è (quasi) sempre gente che ansima, strilla e ha terribili crisi esistenziali (e a me fa venire terribili crisi di emicrania). Anche se, forse forse, ultimamente il cinema italiano si sta riprendendo dal coma nel quale era caduto. Non gridiamolo troppo forte, potrebbe spaventarsi e ripiombare nel sonno eterno.

In ambito editoriale, qualcosa di simile. Premesso che io leggo davvero un po' di tutto, a seconda del periodo/umore/stanchezza/stagione/ecc., ho da poco finito due libri che riassumono alla perfezione il concetto del "poco è meglio". Uno americano e uno italiano. Sono stati piacevoli, lo ammetto, soprattutto in una fase di stanchezza acuta come questa. Ma - qui sorge finalmente la domanda nascosta tra le righe di tutta 'sta manfrina - alla fine cosa ti resta? Cosa ti lasciano i romanzi d'oggi? Cioè, un tempo i libri oltre a far sognare e svagare ponevano dei quesiti, delle riflessioni, potevano addirittura cambiarti la vita.

Non ti addormentare, di S.J. Watson, ediz. Piemme, è il tipico prodotto americano: concepito già come un film (che infatti dovrà essere realizzato prossimamente), con i colpi di scena ben dosati e ben piazzati. Malgrado la storia proceda un po' lenta, sbucano fuori esattamente nel momento in cui devono sbucare fuori, in modo da tenerti comunque sempre incollato, svelandoti un pezzettino microscopico di verità alla volta fino al terribile e trascinante finale.

L'idea alla base della storia affascina e inquieta al tempo stesso: la protagonista, Christine, si sveglia ogni mattina senza ricordare chi è, né dove si trova, e senza mai riconoscere l'uomo che dice di essere suo marito. Ogni giorno deve capire da capo la propria vita, la propria situazione, attraverso alcune fotografie e i pochi racconti del marito Ben. Sapendo che non appena andrà a dormire dimenticherà nuovamente tutto ciò che ha appreso e i nuovi ricordi della giornata. L'estremizzazione della filosofia zen del qui e ora, insomma. Niente passato, niente futuro, solo un interminabile presente senza senso. Già, perché senza i nostri ricordi, senza la nostra identità, quel che diventiamo è un essere privo di senso e di anima.

In effetti il contrasto tra i ricordi che mano a mano cominciano a riapparire alla sua mente e il presente in cui vive Christine è netto: pieni di colori, sentimenti, emozioni i primi quanto scialbo, bianco e atono il secondo. Un'idea di storia che, senz'altro, meriterebbe una riflessione. Se non fosse che lo stile segue il dettame, appunto, del "meno è meglio" senza lasciare traccia di questi potenziali spunti. Frasi asciutte, quasi sempre descrittive, che non esplorano né l'intimità del personaggio né il mondo in cui si muove. E, purtroppo, non solleticano le emozioni di chi legge, se non per la curiosità di vedere come va a finire.


Tutta colpa della neve, di Virginia Bramati, ediz. Mondadori, è invece il tipico romanzo romantico italo-americano. Non solo per il sottotitolo, che è già un programma, quanto per l'immaginario che suscita, tipicamente americano sebbene convertito in salsa milanese (perché in fondo Milano è un po' la New York de' noantri): lei simpatica, allegra, pasticciona, che sbaglia tutto lo sbagliabile possibile, però anche ragazza di cuore, con amici veri che le stanno sempre accanto (vi ricorda qualcuno?); lui potente, pieno di soldi e di fascino, irraggiungibile ma poi mica così tanto, scortese in modo che lei subito lo odi per poi rivelarsi tutt'altro, per esempio uno che naturalmente le regala qualche immancabile gioiello di Tiffany con tanto di brillocco

Lo scenario è quello di un grande studio legale con sedi ovunque nel mondo tranne che nello Zimbabwe (forse), in una Milano tratteggiata a malapena dai nomi delle strade e dello stratosferico hotel per la cena natalizia aziendale in stile Castello-delle-Fate-e-di-Cenerentola messi assieme, e sullo sfondo c'è anche un piccolo mistero che la nostra eroina deve risolvere.

Come dicevo, è stato piacevole da leggere. Di sicuro è scorrevole e se uno vuole sognare è l'ideale, e a sognare non c'è nulla di male, anzi. Però ecco di nuovo la solita questione: i personaggi, che fine hanno fatto? E le frasi da annotare su un quaderno per rileggerle poi, e i rimescolamenti che suscita dentro una bella storia, dove sono spariti? Perché non è un male leggere per sognare, il male è quando anche il sogno si riduce a una sterile materialità senza spessore (ok, ok, il brillocco di Tiffany in effetti un certo spessore ce l'ha).

In un periodo di stanchezza mi ha fatto piacere leggere senza sforzo, però mi chiedo: la letteratura uno sforzo dovrebbe richiederlo, se non altro per farti entrare in connessione con te stesso. E qui c'era qualcosa che non mi tornava, non solo per il fatto che i personaggi non avessero consistenza e fossero tutti o bianchi o neri, tranne il protagonista maschile che cambia atteggiamento in modo radicale senza evoluzione né giustificazione. Il fatto è anche l'immaginario, come dicevo prima: tutto è diventato così semplice e siamo così abituati ad avere tutto a portata di mano che persino nell'immaginazione non siamo più capaci di combattere e attraversare l'inferno per raggiungere un ideale o anche solo una meta? 

Dice che prima di essere pubblicato da Mondadori avesse avuto grande successo come e-book. Dice che gli utenti della rete hanno aiutato l'autrice a migliorare il romanzo, e che il primo scopo di una casa editrice sia vendere. Io so solo che mi mancano i personaggi a tutto tondo, le frasi con più di una subordinata, gli aggettivi, sì. Ma più di tutto mi manca la capacità di sfidare il mondo, le convenzioni, la realtà precostituita che un tempo certi libri avevano, e che oggi troppo spesso (per fortuna non sempre) si riduce a inseguire un film da sfornare e un brillocco da esibire.

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